di Bruno Perazzolo

Si può essere federalisti e autonomisti senza nessuna tessera di partito in tasca? Sicuramente sì! La confusione, che molti ancora fanno, dipende esclusivamente dal fatto che soltanto la Lega Nord, negli anni ’90 dello scorso secolo, ha saputo raccogliere la bandiera di una grande tradizione democratica ponendola al centro di una rivoluzione culturale inedita per il nostro paese: l’ultima vera, importante riforma “ideale” che si sia profilata all’orizzonte di una pratica politica generalmente stanca e priva di visioni strategiche da più di mezzo secolo. Peraltro, ad onore della stessa Lega Nord, va detto che già Umberto Bossi, tra il 1997 e il 2000, con il “Blocco Padano”, aveva fortemente auspicato un allargamento del fronte autonomista – federalista oltre i confini del suo partito.
Ma perché si può essere autonomisti e federalisti anche senza alcuna tessera di partito in tasca? Il primo argomento ha carattere storico ed è semplicissimo. Se la Lega Nord ha saputo “issare sul pennone” la bandiera del federalismo e dell’autonomia che giaceva, dimenticata, in qualche scantinato della nostra Repubblica, quella bandiera non l’ha però fabbricata. Esisteva già molto prima. Senza andare a scomodare la Costituzione americana, quella svizzera o quella tedesca, in Italia l’idea federale affonda le sue corpose radici nel Risorgimento. Nell’800 i nomi sono quelli di Balbo, d’Azeglio, Cattaneo, Ferrari, Rosmini e tanti altri ancora. Nomi illustri, tutti accomunati da una solida visione democratica. Tra fine ‘800 e la prima metà del ‘900, l’intento di fondare l’unità del nostro paese su una solida autonomia locale e sul decentramento (art. 5 Cost.) assume i volti di Salvemini (Partito Socialista Italiano) e don Sturzo (Partito Popolare Italiano), sino ad arrivare alla lotta di liberazione nazionale nel cui ambito l’idea federalista serpeggia in tutti i movimenti ad esclusione dei comunisti, dei nazionalisti e dei fascisti – nazionalsocialisti. Anche qui nomi importanti quali De Gasperi, Miglio, Spinelli e Usellini concorrono a dare lustro, anche in Italia, ad una grande tradizione di libertà dei popoli i cui confini non corrispondono praticamente mai con quelli degli stati nazionali.
Ma arriviamo all’attualità. Perché vale ancora la pena, soprattutto oggi, nel XXI sec., essere federalisti e autonomisti? Credo per quattro motivi. Due abbastanza noti e due meno conosciuti. Le ragioni del federalismo, dell’autonomia e del decentramento vengono di norma ridotte ad un primo motivo di tipo economico: avvicinare la spesa ai cittadini si ritiene possa migliorarne la qualità. I cittadini, infatti, conoscono meglio della “burocrazia” i loro bisogni e, potendo orientare localmente gli interventi pubblici e le relative risorse fiscali prelevate dai loro redditi, possono migliorarne l’efficienza e l’efficacia in un’ottica di autentica responsabilità. Responsabilità che significa, nel bene come nel male, rispondere delle proprie scelte con il proprio portafoglio. Il secondo argomento è quello “tradizionalista”. Federalismo e autonomia sono, da sempre, la forma di Stato che, più di ogni altra, consente di riconoscere le differenze – dettate dallo spirito di un popolo – assicurando nel contempo, alle diverse nazioni conviventi sotto la medesima autorità politica, pace, prosperità economica e, con la conservazione dei propri costumi, maggiore libertà.
Ma ecco, ora, i due altri motivi meno utilizzati. Il primo è dato dalla crescente separazione tra la sfera delle deliberazioni politiche e gli ambiti nei quali, normalmente, vivono concretamente le persone. Le cause di una tale separazione sono tante: la globalizzazione, lo sviluppo di organizzazioni internazionali e sovranazionali, la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e il conseguente strapotere delle lobby ecc. Tante le cause e, tra le conseguenze, una particolarmente grave: il declino della democrazia ampiamente certificato da fenomeni in crescita quali l’astensionismo e la mobilità del “corpo elettorale”. In questo contesto, federalismo e autonomia locale penso rappresentino uno dei pochi antidoti, forse addirittura l’unica “medicina” capace di riportare la politica a contatto con la gente comune restituendo alla maggioranza l’onore e l’orgoglio della cittadinanza. Onore ed orgoglio di sentirsi cittadini, non tanto e non solo in forza dell’esercizio del diritto di votare i propri rappresentanti (democrazia delegata), ma, soprattutto, come accadeva originariamente nella polis greca, in virtù della partecipazione e del coinvolgimento diretto nelle decisioni che più da vicino riguardano la vita quotidiana di tutti (democrazia diretta e partecipata e cittadinanza attiva).
Il secondo motivo, ancora più inusuale del primo, ma probabilmente il più importante di tutti, riguarda la solitudine e l’insicurezza delle persone. Solitudine e insicurezza che sono prevalentemente il frutto dell’individualismo dilagante, del venir meno del senso di appartenenza e del declino delle identità collettive, ovvero della dimensione etica della società così ridotta ad un semplice aggregato di individui. In altri termini, si tratta del complesso di fattori che, più di ogni altro, si manifesta nelle tante “esternalità negative” che erodono i beni comuni del territorio, del vivere civile, del rispetto e della cura di ciò che va oltre il nostro IO. Una “patologia profonda” cui non lo Stato, non il mercato, ma solo la rinascita della comunità (soprattutto della comunità locale, dove la gente ha modo di incontrarsi anche fisicamente e di fare insieme parte delle cose che servono) può dare risposta a patto che, Stato e mercato, che sin qui l’hanno fatta da padroni, inizino ad arretrare almeno di qualche passo.