“Federalismo” e “Federazione” non sono la stessa cosa, anzi, spesso capita che tra le due parole ci sia un abisso

Dall’unico caso di “autentica egemonia politico-culturale” verificatosi nel nostro paese dal secondo dopoguerra ad oggi, la riproposizione di una nuova politica per il territorio.

Nel bel libro “Federalismo e secessione: un dialogo”, edito Mondadori 1997, pp. 3-9, Gianfranco Miglio – allora professore di Scienza della Politica all’Università Cattolica e Senatore indipendente, tra il 1992 e il 1996, prima nella Lega Nord e poi nel Polo per le Libertà – e Augusto Barbera – professore di Diritto Costituzionale dell’Università di Bologna e deputato PCI-PDS dal 1976 al 1994 – sviluppano un interessante confronto sulla differenza tra “Federalismo” e “Federazione”. Prima di entrare nel merito dei due termini, penso valga però la pena di fare una premessa che potrebbe essere sintetizzata così: “Erano decisamente altri tempi!” e, il merito, va sicuramente ascritto alla Lega Nord di Bossi, ufficialmente costituita, serve ricordarlo, nel 1991. Nel libro, infatti, colpisce come due persone, che in Parlamento sedevano l’una opposta all’altra, riescano a dialogare, malgrado la distanza tra le rispettive appartenenze politiche, con tanta pacatezza e, soprattutto nell’interesse del lettore, in modo costruttivo. Ma, appunto, “erano altri tempi!”. Tempi in cui, senza timore di smentite, si può affermare che la Lega di Bossi avesse assunto, andando ben oltre i voti raccolti nelle urne, quella che, in termini gramsciani, potrei definire benissimo come “l’egemonia politico culturale sull’intero arco delle forze politiche costituzionali del nostro paese maggiormente rappresentative”. Se non fosse stato così, come si potrebbe altrimenti spiegare, nel 1997, la riforma Berlinguer sull’Autonomi Scolastica e la Legge Bassanini sul, udite udite, “Federalismo Amministrativo”; e poi, nel 2001, la riforma del titolo V della Costituzione. Il fatto che tutto ciò sia venuto dal centro – sinistra, cioè da una cultura tradizionalmente fortemente centralista e statalista, non smentisce affatto “l’egemonia culturale della Lega”; anzi, si tratta proprio della prova più eloquente. Certo, una provenienza tanto contraddittoria dei nuovi istituti giuridici – formalmente orientati da principi quali il federalismo e la sussidiarietà – che fanno a pugni con la tradizione “unitaria” della sinistra e del centro che guarda a sinistra, non poteva avvenire senza ambiguità e limiti. Limiti che, alla fine, si sono rivelati, in concreto, pregiudizievoli dell’efficacia e del successo delle stesse riforme. In questo contesto, però, mi preme rimanere sul fatto dell’egemonia culturale che si verificò allora quando, persino chi aveva sempre militato per ideologie opposte, si trovò ad utilizzare lo stesso linguaggio: quello federalista e personalista. Credo si sia trattato di un evento unico dal secondo dopoguerra ad oggi, tant’è che attualmente, in mancanza di un’analoga condizione, sui temi del decentramento e dell’autonomia, benché siano sanciti dalla nostra Costituzione nei principi fondamentali (artt. 5 e 6 Cost), si assiste ad un clima da stadio. Un clima dove, soprattutto chi si riconosce nello schieramento di centro – sinistra, piuttosto che confrontarsi, tende, quasi fosse un disco rotto, a ripetere la solita manfrina, al limite dell’insulto, secondo la quale, “chi vuole l’autonomia mira a spaccare il paese e ad assecondare la secessione dei ricchi”. Affermazioni, queste, semplicemente ridicole che rivelano solo la “regressione infantile” all’antico centralismo di chi, pur restando a sinistra, almeno per un paio di decenni (1990 – 2010), sia pure sul solo piano culturale e dei principi, aveva dimostrato una certa apertura. Ma quelli, appunto, sono stati altri tempi.

Ma entriamo nel merito.

La cosa interessate e di grande attualità, delle pagine del libro che propongo al lettore (pp. 3 – 9 “federalismo e secessione: un dialogo”, edito Mondadori 1997), mi sembra la convergenza dei due studiosi nel considerare la Federazione una forma di Stato e/o di Governo e il Federalismo una dottrina politica. Che cosa cambia? Cambia tantissimo! Il Federalismo trae spunto dalla filosofia politica di stampo democratico liberal-popolare, incentrata sull’idea della diffusione sia del potere economico – politico sia delle competenze (conoscenze) nel contesto o, anche, per mezzo della tutela delle autonomie e delle tradizioni (consuetudini) locali: il sapere del popolo. A fronte dell’attuale “concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi”, della sparizione dei partiti politici (divenuti, chi più chi meno, personalisti) dal territorio, del crescente potere delle lobby, soprattutto finanziarie, e della disaffezione al voto che dilaga principalmente tra i ceti medio – bassi, dovrebbe essere di per sé evidente, per chi crede nei valori della libertà e nella centralità della persona, il contributo che, oggi più che mai, può venire dalla Visione Federalista.
Diversamente dal Federalismo, la Federazione è un Istituto di Diritto Pubblico tramite il quale, di norma, più Stati Sovrani danno vita ad un’unione politica trasferendo un certo numero di funzioni (competenze) allo Stato Federale quali la politica estera, la difesa, la gestione della moneta e la creazione di un mercato unico ecc. Tra Federazione e Federalismo può esserci sovrapposizione (es. USA, Germania, Svizzera), ma anche opposizione nel senso che alcuni Stati Federali possono non essere affatto Federalisti (es. il Brasile, l’ex URSS e l’attuale Federazione Russa), mentre altri Stati, ufficialmente non Federali (es. gli Stati Regionali), possono essere benissimo Federalisti. La differenza, come già accennato, dipende dalla presenza o meno del decentramento e dell’autonomia dei poteri economico, politico e culturale. In altri termini la differenza dipende dal grado di limitazione del Potere Centrale e dal riconoscimento o meno del pluralismo dei Governi Locali delle Autonomia Sociali (autogoverno dei territori). In quest’ottica, per esempio, si può sostenere che gli USA dell’800 rappresentino una sorta “di tipo ideale”. Oltre che Stato Federale, nell’800, gli Stati Uniti d’America sono stati, sicuramente, uno Stato Federalista. Una “Repubblica di Artigiani” come l’ha apostrofata qualcuno (D. Graeber, Bullshit Jobs, Garzanti 2018 pp. 285 ss). Un Repubblica incentrata sul valore puritano del lavoro autonomo (la piccola proprietà) orgogliosamente opposto a “capitalisti, banchieri, mendicanti e vagabondi” tutti insieme inclusi nella “classe degli oziosi”. Una Repubblica che, giustamente, C. Lasch considera una specie di puro modello dello Stato Democratico (C. Lasch, la ribellione delle élite, Feltrinelli 1995 pp. 52 – 55).

Il prossimo mese di giugno, si terranno diverse elezioni Amministrative Locali. Tutti i candidati parleranno dell’importanza del TERRITORIO. Alla luce delle questioni che ho provato ad affrontare in questo articolo, dovrebbe però essere chiaro all’interno di quale tradizione, culturale e politica, questo tema possa essere autenticamente valorizzato come fattore cruciale di ogni compiuto e sano sistema democratico. Rivolgendomi, in particolare, a coloro che si riconoscono nella tradizione federalista (quella che, in Italia, va da Cattaneo a Miglio, passando per la Carta di Chivasso), alcuni anni fa abbozzai alcune idee in un articolo dal titolo “Sentirsi comune: alcune ipotesi di lavoro territoriale nell’epoca della crisi dello stato sociale”. Si tratta di proposte maturate all’interno di una concreta esperienza locale. L’auspicio è che possano servire a qualcuno e poi, magari, anche in vista della prossima tornata elettorale, favorire un confronto che, penso, il nostro “Nuovo Cisalpino” sarebbe onorato di ospitare.

Bruno Perazzolo